Kampfar – “Til Klovers Takt” (2022)

Artist: Kampfar
Title: Til Klovers Takt
Label: Indie Recordings
Year: 2022
Genre: Black/Folk Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Lausdans Under Stjernene”
2. “Urkraft”
3. “Fandens Trall”
4. “Flammen Fra Nord”
5. “Rekviem”
6. “Dødens Aperitiff”

Der mennesker blør i hunger og død!

Dapprima, l’indecifrabile e l’inesplicabile, l’apparentemente impenetrabile e l’inintelligibile generano distanza e rigetto per l’innato tentativo di raggiungere piena comunanza col branco, con la norma e il circondario. Per sanare quella che, altrimenti, è una frattura. Col tempo, tanto o poco per favore dell’inclinazione personale e della presenza di quella forma d’intelligentia che chiamiamo curiosità o attrazione per il nuovo, per il differente o proprio per il mistero e verso ciò che sfugge al ricalcolo della razionalità, si verifica tuttavia il processo opposto: la corazza di disprezzo riservato a quel pericoloso luogo mentale a cui il diverso attira si sgretola, in favore di qualcosa che invece bramava e rimuginava bisbigliando nel profondo fin dal primo contatto con quella stranezza, quella deviazione, con quell’incomprensibile manifestazione di forza magnetica che è Spiritus Orcus, huerco, il divoratore d’anime dal mondo di sotto e apparso come un fantasma sul letto di un vecchio col suo violino che -nella cultura popolare come culturale nordica- è non casualmente già un marchio diabolico di per sé, in una congiunzione d’ispirazione che rapisce come un troll di montagna al calar delle tenebre, nell’atto di creazione come possessione spiritica e della resa incondizionata ai poteri sovrannaturali del Diavolo in persona che si manifestano nell’inspiegabile; in tutto ciò a cui non si può insomma dare un nome se non nella spaventosa, misterica, segreta ed incomprensibile lingua della morte – bestemmiata, vituperata, allontanata e disprezzata com’è dal gregge, alla quale cercano di opporsi le acque del Santo Spirito e, come ultimo tentativo, persino l’impiegato favore di quelle stesse e temutissime fiamme su tede ardenti da cui l’incomprensibile è solitamente, storicamente e culturalmente, visto provenire.

Il logo della band

Il plurilinguismo tra i diversi canti di profeti e vallate, tra sangue vitale e linci totemiche all’interno delle stesse canzoni (“Flammen Fra Nord” e “Rekviem” più palpabilmente) è un suggerimento in tal senso, un indizio già in sé: in “Til Klovers Takt”, orgogliosamente skrevet og fremført av Kampfar, vi è una sorta di coralità sacrale e blasfema al contempo, di pluralismo e di scambio dialettico. Non solo quello dialogicamente vocale tra le due ugole che con tempi, spazi e modi alterni si sfibrano devote nel nome della band tramite le prestazioni eccelse e le rispettive personalità di Dolk e Ask, bensì quello di un disco fatto di domande da e per i suoi autori, di dubbi e riflessioni mediate da una visione del mondo sì antica e possente, con forti radici, ma comunque attanaglianti dall’interno le profondità di quello intero.
Come i più grandi scrittori nordici mai esistiti, i Kampfar del 2022 lavorano musicalmente e con intensità fuori dal comune per esprimere pensieri semplici e sentimenti forse anche squisitamente elementari, comuni all’intera umanità -sebbene qui siano splendidamente ammantati di una misteriosità pagana e stregonesca, superstiziosa e oscura- ma fortissimi proprio perché prescindono dalla locazione geografica sul planisfero diacronico, messi come sono di fronte all’enormità delle eterne forze della vita. E di fronte all’infinità dei suoi malesseri nondimeno, al ritmo travolgente e battuto funesto da zoccoli cavi, il tempo dettato da piedi caprini sul terreno fetido che è terra dei reietti, di coloro che in base al periodo verranno sconsiderati e perseguitati, o esiliati come varg e streghe, criminali con la colpa della conoscenza. Si intona una marcia guidata da un flauto argenteo in loro nome, diavoli e demoni la danzano in un ballo eteno e sfrenato sotto la luce fredda delle stelle, riscaldati da quella speculare e rossastra di torce che sembrano indiavolate, e come non mai i Kampfar danno l’impressione nitidissima di aver donato ad ogni singolo brano un’attenzione compositiva davvero fuori dal normale: come se ogni singolo pezzo dovesse e potesse reggere il disco anche a sé, anche da solo; come ogni brano potesse -e da ultimo potesse davvero- aprire e chiudere l’album nel migliore dei modi possibili; ogni brano, in sintesi, potesse rivaleggiare non solo stilisticamente ma anche in piena emotività con una “Our Hound, Our Legion”, “Tornekratt” (quest’ultima in particolare, per la prima volta, strappa il lanternino al fatidico disco rossastro del 2014 in quanto papabile matrice su cui costruire nuovi brani) o l’ancor più recente “Det Sorte”.

La band

In tutto ciò, nella spinta evolutiva costante, un ritorno a qualcosa di mai abbandonato: l‘ esplorazione del folklore nel suo aspetto più inquietante e fantastico, più criptico e visionario, con quell’angoscia mefistofelica e propria dell’essere che non può capire realmente dove sta andando procedendo ma che è dolorosamente conscio di essere su quella strada di vuoto che vede innanzi a sé, nell’ombra e nella morte alla fine del proverbiale tunnel; con quell’angoscia che riempie l’esistenza e che aleggia su noi tutti. Il lavorio febbrile di artisti che hanno pertanto capito, a differenza di troppi altri, come utilizzo e fascinazione per un mondo antico e primitivo rispetto al nostro non possa coesistere col rifiuto di occuparsi metaforicamente del proprio esatto tempo; tra quella sorta di primitivismo a cui aderisce il genere tutto e la speculare, integrata percezione, la coscienza della modernità e dell’hic et nunc senza la quale tutto del primo perde significato e diventa posticcia rievocazione senza nemmeno valore d’intrattenimento storico a supporto.
È in questo forziere di enorme ispirazione che viene ritrovato quel folklore mai sopito dei figli di Hemsedal, i figli di quegli antenati che li chiamano con un nome inconfondibile attraverso bianche e spumose cascate custodite da maligni spiriti incantatori che vi suonano indefessi, dalle foreste nebbiose e dalle imponenti montagne avvolte nel loro vestito di neve, con tutto il favolistico malessere e la paura incastonate nell’universalità spaventosa di credenze e dicerie popolari (si pensi al tono d’inquietante filastrocca di una “Urkraft” o della più tirata ma sperimentale “Fandens Trall”), di supposizioni ed ombre incomprensibili, fenomeni raccapriccianti che tormentano le notti difficili e solitarie in una casetta immersa nel freddo tra i colli del Vestland norvegese. Il filo conduttore tra pezzi non funziona insomma meno o troppo differentemente da quelli che legavano tra loro gli episodi di ogni precedente album del gruppo, particolarmente da “Ofidians Manifest” a “Mare” andando a ritroso – eppure vi è concessa qui molto più che altrove anche quella totale concentrazione su ogni singolo momento poc’anzi anticipata, così che tutti i pezzi si espandano e carichino di unicità, dettagliatezza ed intricatezza inedite persino per il gruppo; dalla marcia tra il solenne e l’incubo che apre la nocturne “Lausdans Under Stjernene” (la quale vive degli stessi migliori momenti in mid-tempo costruiti dalla band tra “Djevelmakt” -soprattutto- e “Profan”) a quella tra le nevi perenni che accerchiano i piedi sempre più rallentanti della superlativa closer-track, tra nerezza opprimente, “Ceremony Of Opposites” e pause d’inquietante vicinanza al cuore, prima di caricarsi come un urlo a pieni polmoni di quella ricchezza e complessità quasi caotica graziante le grandi intuizioni di una micidiale “Flammen Fra Nord”: dal suo iniziale canto, davvero e facilmente uno dei momenti più feroci, frontali e disarmonici dell’intero repertorio Kampfar ad oggi impilato sulle ossa dei propri nemici.
Ma il collettivo si spinge questa volta molto oltre e in un episodio come “Rekviem” compone a mani basse il suo più grande, stratificato, imponente, inventivo e maestoso pezzo di sempre – non a caso il più lungo, secondo solo a “Ildverden” e gemello di “Valdogg”: fantastico nel suo evolversi nei tre movimenti, passando come una freccia avvelenata tra quella smodata danza di demoni e diavoli, un infernale funerale atavico tra oscurità che sale come foschia ed astri coperti ma luminosissimi nell’irresistibile secondo atto, ed irradiando infine bagliori di pura, straziante luce tra ombre cornute sulla trionfale conclusione, stipando in circa nove minuti di carica drammatica in una vera simbiosi tra musica e parole come rarissimamente se ne possono ascoltare tutto quello che troppe altre band non riescono a creare in intere carriere e ben oltre quest’ultime. Nonostante la base di queste fiamme impetuose che si allungano dal profondo nord sia del resto ormai collaudata, sebbene ci sia una firma nei riff pieni di groove soprattutto negli sprazzi lenti ricamati da mastro Hartvigsen come tra gli spazi sapientemente lasciati dalle inconfondibili scelte in fatto di sintetizzatori impiegati, il quartetto riesce infatti sempre a superare un precedente scoglio – sempre a trovare una nuova via da battere con scarponi ferrati dall’esperienza singola come complessiva. Il lavoro di team in gioco è stupendamente affascinante, dalle fondamenta di catastrofe del Jon Bakker alla ricerca con cui vengono esplorate nuove soluzioni elettroniche (il finale della stessa “Rekviem” che con quei rintocchi pulsanti sulle ali di un violino disperato introduce alla spina dorsale della conclusiva e pestifera, malata “Dødens Aperitiff”, anticipata da venature rimembranti per un solo attimo ma con estrema facilità i Thorns dell’avanguardistico 2001) semplicemente sorprendente nel pieno mantenimento -nuovo e sempre familiare al tempo stesso- di tutta quell’aura apocalittica e fin-du-monde con cui il gruppo si è splendidamente vestito e in cui è sempre più maturato dallo spartiacque “Djevelmakt”.

La ångest, l’angoscia che si tocca con mano in “Til Klovers Takt” è ancora figlia della crisi profonda ed intimistica che porta nel 2019 alla realizzazione del fortunato “Ofidians Manifest”, di cui il nuovo album è fratello ancor più notturno ed atmosfericamente raffinato, e al contempo viralmente brutale – e ciononostante tutta nuova e superiore perché figlia al contempo del suo stesso superamento e dell’impiego di questa forza motrice come qualcosa d’altro e diverso, sempre reinventato. E non sorprende dunque che ogni disco dei Kampfar all’ascolto, quest’ultimo aureo compendio non escluso, così come quando si dice che una certa band può essere ritenuta una garanzia, sembri e suoni come fosse stato scritto da solo – come se si fosse scritto da sé o da strane, ultraterrene forze che vanno oltre quelle dei suoi autori. Perché è molto probabilmente proprio così che stanno le cose, in un mondo anche malato, maledetto come il nostro. Un mondo senza fine eppure già finito, spacciato, condannato da sé stesso senza possibilità di appello. Un mondo dal quale comprensibilmente isolarsi e rinforzarsi ciclicamente nel lavoro di gruppo più intimo, con menti e spiriti affini, abbracciando quel che tutti gli altri temono… proprio là – laddove l’umanità trema inerme in un bagno sangue, fame e morte, abbracciando e accogliendo il linguaggio e le cure di colei che, mai sazia di brindare con la vita e colma di indicibile felicità, di malinconia e di bellezza nel farlo, al fragor dell’angelica tromba sarà il conforto di chi l’accoglie e il terrore di chi, cicatrice nel panorama di Dio, invece la rigetta.

Her er livets blod...

Matteo “Theo” Damiani

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